Quante Ucraine ci sono, una, due, nessuna, centomila? E il Donbas rappresenta un'area particolare e unica o la sua alterità rispetto al resto del paese è frutto di una prolungata e interessata opera di propaganda? Terza puntata del nostro speciale dedicato alla regione contesa
Una, due, centomila, nessuna Ucraina. Si ripete spesso, a ragione, che il presidente russo Vladimir Putin con la sua decisione di invadere il paese confinante abbia ottenuto il contrario di quanto si prefigurava: nella sua retorica convinzione che appunto non esistesse “nessuna” Ucraina, o che comunque quest’ultima fosse nient’altro che una “invenzione dei bolscevichi”, Putin ha invece generato un inaudito senso di unità e patriottismo nazionali – tali per cui la prima avanzata per prendere la capitale Kyiv è stata respinta con successo e si è creato un consenso sostanziale presso gli ucraini di voler respingere dal proprio territorio qualsiasi presenza o influenza russe, non solo militare ma anche linguistica e culturale.
Dunque siamo di fronte finalmente, e in maniera definitiva, a “una” sola, indivisibile benché attualmente divisa, Ucraina. Per molti, non è nient’altro che la logica conseguenza di un processo che si era già dato a livello formale con l’indipendenza del paese nel 1991 e che si è piano piano andato ad approfondire con i diversi movimenti di piazza che, fra le altre cose, sognavano un sempre maggiore distacco da Mosca e un possibile avvicinamento all’Europa: Ucraina senza Kučma nel 2001, la Rivoluzione Arancione del 2004, ma soprattutto gli eventi di Euromaidan del 2013/14 – che di fatto costituiscono il “primo atto” della guerra scoppiata due anni fa su larga scala.
Il dossier |
Se l’invasione su larga scala dell’Ucraina sta entrando nel suo terzo anno, sono quasi dieci gli anni di aggressione e ingerenza russa nel paese, cominciati nel 2014 con l’annessione della Crimea e continuati con la guerra ibrida in Donbas. Molto è cambiato rispetto alla ‘prima fase’ della guerra russo-ucraina, ma il Donbas è rimasto una delle poche costanti: la regione continua a essere la zona più colpita, a livello umano e materiale, dai combattimenti. Un’ulteriore tendenza della “questione del Donbas” è che ad affrontarla siano molto più spesso giornalisti e analisti mai vissuti in quell’area – che si tratti di russi, ucraini occidentali o esperti stranieri – rispetto a chi nel Donbas è nato e cresciuto.
Il nostro progetto, composto da dieci puntate, nasce con l’obiettivo di raccontare gli eventi del recente passato della regione contesa con la consapevolezza e lucidità dell’oggi. Reintegrare il Donbas è diventato una priorità politica imprescindibile per Kyiv, mentre il congelamento dello status quo è essenziale negli obiettivi bellici di Mosca. Nessuna delle due parti in conflitto affronta però realmente le specificità della popolazione locale, o di ciò che ne è rimasto. Abbiamo raccolto numerose voci del Donbas “reale” che hanno lasciato la regione nel 2014-15 per trasferirsi altrove, in Ucraina o in Europa. Posizioni fortemente anti-Cremlino, ma mai acriticamente a supporto dei governi ucraini. Abbiamo chiesto loro quale presente e futuro vedono per il Donbas, una casa in cui temono di non ritornare mai più.
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Lo spettro di una guerra civile
Anche allora, dopo che già si erano verificati diversi episodi di violenza fra i manifestanti e le forze dell’ordine, aleggiavano voci di un possibile conflitto civile, di una spaccatura fra la popolazione che sarebbe potuta diventare sanguinosa. Così le stigmatizzava lo scrittore ucraino russofono Andrei Kurkov, il 9 gennaio 2014 nei suoi Diari ucraini (Keller editore, 2014): “Tranquilli, signori cittadini e giornalisti! Non ci sarà nessuna guerra civile! Chi lo dice cerca solo di imporre alla realtà un suo desiderio! Una guerra civile consiste nello scontro fra due parti attive della popolazione. […] Ma ditemi voi, dove le vedete in Ucraina queste due controparti che, ognuna con il massimo fervore, sarebbero pronte a difendere le proprie idee? Io non le vedo”.
Un paio di settimane dopo, quando nella capitale erano arrivati i primi morti durante le contestazioni di piazza, si faceva strada nelle cronache di Kurkov una qualche sfumatura in più: “Non bisogna dimenticare poi quella parte di Ucraina che non è per niente contraria all’attuale governo [il governo, poi estromesso, di Janukovich, ndr]. Quanto sia non-contraria è difficile da capire, ma tutto il bacino di Donec’k, continua a vivere la sua vita. […] A quella gente è stato messo in testa che sono gli unici veri ucraini. Loro rispetterebbero qualsiasi governo, pensano solo a lavorare e non ficcano il naso nelle vicende politiche altrui”.
Forse, in questi due ritagli di racconto del tumultuoso periodo delle proteste di Euromaidan da parte di uno dei più acclamati scrittori ucraini è racchiuso un dibattito complesso e sfaccettato, che ancora oggi non è chiuso ma anzi, per certi versi, viene amplificato dalla guerra in corso. Fra le diverse motivazioni che Putin ha messo sul piatto per giustificare la sua invasione del 2022 c’è infatti la necessità di essere stato costretto a intervenire per salvare le popolazioni “russofone o russofile” dell’Ucraina (in particolare del Donbas e della Crimea, ma in generale di tutto il sud-est del paese) e molto spesso la propaganda moscovita parla di “genocidio del Donbas” o comunque di una sanguinosa guerra civile mossa principalmente da Kyiv contro i “separatisti” che si sarebbe protratta dal 2014 in avanti.
Una società composita
Sicuramente quello delle “due Ucraine” – l’esistenza cioè di una divisione abbastanza netta in termini di appartenenza etno-linguistico-culturale ma soprattutto di orientamento politico fra l’est e ovest del paese – è stato un filtro di lettura molto utilizzato dalla stampa e dalla ricerca accademica, già da prima dell’Euromaidan ma in particolare per dare ragione degli eventi che si sono dispiegati di lì in avanti. Al pari della stragrande maggioranza dei contesti nazionali, d’altronde, è chiaro che anche in Ucraina sussistevano e tuttora sussistono una miriade di differenze da molteplici punti di vista (e che la società possa essere considerata un “mosaico”, come riassume il titolo del bel libro di Olesja Jaremčuk Mosaico Ucraina), che sono portate ad acuirsi nei momenti di crisi.
Così, in un reportage sul campo scritto poco dopo l’annessione della Crimea da parte della Russia (contenuto in questo volume), il giornalista Danilo Elia commentava una tale varietà, attraversando in treno tutto il paese: “Donec’k da una parte, Leopoli dall’altra. Le due città sembrano i due poli di un’Ucraina oggi più divisa che mai […] Ecco che un viaggio da Donec’k a Leopoli, due giorni di treno, da un estremo all’altro del paese, possono aiutare a comporre il puzzle ucraino. Un viaggio che inizia qui a Donec’k, a un tiro di schioppo dal confine con la Russia, dove tutti – ma proprio tutti – tanto russi quanto ucraini si esprimono nella lingua di Mosca, e finisce dall’altra parte del paese, all’ombra del barocco polacco di Leopoli, dove ucraina è la lingua, cattolica la religione e polacco, austroungarico e yiddish il passato. […] La definizione di filorussi che spesso frettolosamente la stampa affibbia a una parte della popolazione – in contrapposizione alla componente ucraina – non spiega molto e cela una varietà di gradazioni. Ci sono cittadini russi che vivono in Ucraina (come i militari della flotta del Mar Nero in Crimea) e cittadini ucraini di etnia russa, nati cioè in Ucraina da genitori russi o in Russia prima della caduta dell’Urss (…). Poi ci sono i russofoni, che possono essere tanto di etnia russa quanto ucraina (…). E poi ci sono gli ucrainofoni, che possono avere anche del sangue russo nelle vene. Ma quella linguistica è solo una delle possibili divisioni”.
Quanto sia semplicistico operare una divisione netta in termini linguistici o etnici rispetto alla popolazione ucraina, anche dopo l’inizio dell’invasione su larga scala, lo si vede anche dalla variegata composizione delle divisioni e dei battaglioni che combattono contro le truppe di Putin: georgiani e ceceni anti-Kadyrov, bielorussi che si oppongono a Lukašenka, militari di etnia rom e di discendenza ebraica, unità di ispirazione socialista e anarchica, fazioni Lgbt così come membri di forze di estrema destra nazionalista legate a Pravy Sektor.
“Nella mia divisione c’è persino un uomo che nove anni fa manifestò nell’AntiMaidan ed è convinto che questa guerra sia tutta colpa di chi protestò contro Yanukovich”, ha raccontato il poeta e soldato di origini crimeane Igor Mitrov. Ci sono, tra l’altro, anche cittadini russi che hanno deciso di unirsi all’esercito di Kyiv. Similmente, pure le scelte compiute dalle autorità locali delle diverse cittadine e dei diversi villaggi non hanno seguito una distinzione chiara: sindaci appartenenti allo stesso partito (i fenomeni di collaborazionismo hanno coinvolto soprattutto i partiti filorussi Piattaforma di Opposizione - Per la vita e Blocco per l’Opposizione, nati dopo lo scioglimento del Partito delle Regioni nel 2014) hanno in alcune occasioni deciso di collaborare con gli occupanti mentre in altri casi no, subendo anche pesanti conseguenze.
Dinamiche economiche e guerre fra oligarchi
Per dirlo con una metafora, in Ucraina “la mappa non è il territorio”. Nessuna mappa, che sia quella delle appartenenze etniche, delle lingue parlate o del voto nel corso degli anni per il Partito delle Regioni di Janukovyč: criteri questi che, se presi appunto “a volo d’uccello”, possono mostrare una certa distinzione della parte orientale del paese rispetto a quella occidentale, che va secondo alcuni parametri intensificandosi soprattutto in Donbas e magari nello specifico delle oblast’ di Donec’k e Luhans’k.
La realtà, però, è che il presunto “eccezionalismo” di questa regione rappresenta il risultato di dinamiche diverse, che vanno dalla strumentalizzazione politica di alcune sigle partitiche ucraine da un lato e dalle élite di Mosca dall’altro,alle differenze di tessuto economico-produttivo, da effettive peculiarità culturali e linguistiche fino alla destabilizzazione attiva (e fino a un certo punto occulta) che è stata portata avanti da agenti legati al Cremlino e da personaggi più o meno riconducibili agli ambienti dell’estrema destra russa.
Così scriveva la ricercatrice ucraina Julija Jurčenko nel suo Ukraine and the Empire of Capital (“L’Ucraina e l’impero del Capitale”, Pluto Press, 2018): “La divisione fra le due Ucraine è un mito costruito ad arte. Piuttosto, di Ucraine ce ne sono molte che si sovrappongono l’una all’altra, visto che si tratta di un paese multietnico, multilinguistico e multireligioso”. Secondo l’autrice, il “sottofondo” che ha accompagnato le evoluzioni socio-politiche del paese dall’indipendenza in avanti è stato un complicato intreccio di lotte intestine fra diversi “clan oligarchici” (in particolare, il cosiddetto “blocco di Dniprò”, guidato da figure come Kravčuk e Kučma assurti a essere presidenti delle nazione, che ha dominato la prima fase dell’Ucraina indipendente, e il cosiddetto “blocco di Donetsk”, di cui facevano parte l’ex-primo ministro Azarov e appunto Janukovyč) che a loro volta sono andate a intersecarsi con le dinamiche di natura geoeconomica afferenti ai meccanismi neoliberali prevalenti nell’Unione Europea da una parta e ai tentativi di espansione egemonica della Russia dall’altra.
Prosegue Jurčenko: “Durante il periodo che va dal 2007 al 2013/14 il blocco di Donec’k ha usurpato il potere del paese. [Grazie allo svilupparsi delle cosiddette “guerre del gas” con la Russia, che avevano costato un calo di consensi dell’allora primo ministro Tymošenko ], Janukovyč si assicurò la vittoria alle presidenziali del 2010 che, in combinazione con la maggioranza ottenuta in parlamento dal Partito delle Regioni, ottenendo così il controllo sia del braccio esecutivo che di quello legislativo da parte del blocco di Donec’k. In questo modo, si accelerò il processo di centralizzazione del potere [che portò infine] all’insurrezione del Majdan, all’intensificazione di un sollevamento civico e alle spinte di separatismo armato. Quest’ultimo fu, in ultima analisi, il diretto risultato del mito della fabbricazione del mito delle “due Ucraine” e, più recentemente, del mito [del Donbas] come “grande Altro”, senza il quale il separatismo sostenuto dal Cremlino non avrebbe avuto possibilità di successo”.
Dall’infiltrazione all’invasione
Insomma, la storia dell’Ucraina indipendente e in particolare la storia del Donbas è una storia di continue infiltrazioni: innanzitutto quelle relative al piano economico-sociale, per cui si è sviluppata nella regione una attività di tipo predatorio e mafioso che ha provato nel corso del tempo a capitalizzare il suo controllo delle risorse territoriali con la presa del potere politico.
Ci racconta il ricercatore di politica ucraina Konstantin Skorkin (nativo di Luhans’k): “L'intero mito dell'identità del Donbas, di un Donbas speciale, serviva solo da copertura per autorità corrotte, cioè per quel gruppo di potere che ‘possedeva’ la regione. Si trattava di un gruppo di oligarchi composto da ex funzionari comunisti che erano riusciti a impadronirsi di proprietà statali dopo il crollo dell'Unione Sovietica. Hanno avuto bisogno di un ‘mito fondativo’ per difendere le proprietà che avevano sequestrato. Avevano bisogno di un'ideologia e hanno sfruttato l'umore nostalgico degli abitanti del Donbas semplicemente perché era chiaro a tutti che dopo la caduta dell'Unione Sovietica, la situazione economica in tutta l'ex Urss, compresa l’Ucraina e il Donbas, era pessima”.
Più che divisioni insormontabili e ancestrali fra est e ovest del paese, dunque, è esistita un’intensa operazione di propaganda (interna anche alla politica ucraina, soprattutto dopo il 2004) che ha giocato su differenze tutto sommato poco percettibili nella società e nella quotidianità delle persone. Una sorta di conflitto simbolico e aleatorio, esistente già negli anni ‘90 ma di fatto risalente all’epoca sovietica, su cui poi ha fatto cinicamente leva l’invasione putiniana, in particolare nella sua prima fase risalente a dieci anni fa.