Le profonde fratture che hanno spaccato la società nel Donbas, cristallizzate dall'invasione russa dell'Ucraina, per molti continuano ad avere un carattere oscuro e indefinito. Un viaggio alle radici degli squarci dolorosi che hanno portato alla guerra nella quarta parte del nostro speciale dedicato alla regione
Oltre alle morti, ai feriti e al dolore per la distruzione, la tragedia del conflitto in Donbas è data anche dal suo carattere vago e a tratti scarsamente comprensibile – come se si trattasse di una guerra che si trascina da anni senza una vera ragione e che, anche col passare del tempo, fa perdere le tracce delle cause che l’hanno scatenata. “È impossibile non vedere l’assurdità di questa guerra, una guerra in cui il continuo bagno di sangue è giustificato e glorificato attraverso ideali che non sono mai andati molto oltre i cancelli di un complesso universitario”, si interrogava già nel 2014/15 nella sua Lettera ai russi il giornalista Stanislav Aseyev.
Arruolatosi nell’esercito ucraino in seguito all’invasione russa su larga scala, Aseyev – nato a Donec’k e cresciuto nella città di Makiivka, come tanti altri sequestrato e torturato dalle forze separatiste nella prigione di Izolyatsia (esperienza che ha raccontato nel libro di recente traduzione The Torture Camp on Paradise Street), ha lavorato come reporter sotto copertura nell’area del Donbas durante le prime fasi del conflitto, scrivendo intensi reportage su come fosse stata possibile l’esplosione improvvisa di un odio tanto viscerale fra due popoli, senza che se ne fossero avute forti avvisaglie prima di allora.
Arrivano i “banditi”
Se in seguito all’inizio dell’invasione su larga scala è vero che si è generato all’interno della società ucraina uno sforzo per respingere l’aggressione trasversale rispetto alle comunità etniche, linguistiche o politiche, altrettanto vero è il fatto che quando dieci anni fa si producevano i primi scontri armati nell’area del Donbas la situazione era molto variegata e complessa: mentre in Crimea spuntavano i misteriosi “omini verdi” (soldati russi senza insegne, come si verrà a scoprire più tardi), a Mariupol, Donec’k, Luhans’k o Kharkiv c’erano cittadini russi che si mischiavano alla popolazione locale durante le manifestazioni, sigle politiche “separatiste” che fino ad allora non avevano mai avuto una grande visibilità, volontari dalla Russia di tendenza zarista o “eurasista”, gruppi sedicenti “di sinistra”, ultras del calcio, battaglioni internazionalisti con serbi, latinoamericani, osseti, ceceni, armeni…
Un quadro composito e caotico che molti analisti hanno ricondotto alla strategia della cosiddetta “guerra ibrida”: una dottrina, cioè, che invece di prevedere uno scontro aperto e frontale opera su più piani e in diverse direzioni nell’ottica di una destabilizzazione interna dell’avversario, mascherando il più possibile l’intervento attivo del soggetto statale che porta avanti l’attacco (la Russia nei confronti dell’Ucraina, in questo caso).
In uno studio effettuato sul campo durante la prima fase del conflitto (contenuto nel volume The War in Ukraine’s Donbas, CEU Press, 2018) la ricercatrice Oksana Mikheieva rilevava come fra le fila dei combattenti “pro-russi” (quindi dei cittadini ucraini che si erano uniti ai battaglioni delle repubbliche popolari di Donec’k e Luhans’k) ci fosse una percezione della propria appartenenza nazionale “sfocata e nebulosa”: chi si appellava a un certo “carattere russo”, identificato non tanto con l’attuale Federazione quanto con il concetto pan-sovietico di “regno slavo orientale” come comunità singola di ucraini, russi e bielorussi, chi invece si sentiva in tutto e per tutto una persona “di Donec’k o Luhans’k” o ancora chi chiamava in causa il costrutto politico-ideologico della Novorossija.
In generale, vigeva un diffuso senso di ostilità – anch’esso comunque piuttosto “vago”, rileva Mikheieva – verso un ampio spettro di soggetti altri e percepiti come nemici: i manifestanti del Majdan, il nuovo governo ucraino, i residenti della parte occidentale del paese (“che sono sempre insoddisfatti e non fanno altro che escogitare nuove proteste come quella di Majdan”), l’Europa, l’Occidente Collettivo, gli Stati Uniti, i tatari di Crimea.
Dopo un primo tentativo di prendere l’amministrazione regionale nel marzo 2014, i manifestanti separatisti insieme ai “turist i” russi provenienti da oltre-confine, erano riusciti a occupare la sede dell’oblast’ di Donec’k il 6 aprile.
“Quando a Donec’k sono arrivati i ‘banditi’ nei primi giorni del marzo 2014 sembrava tutto folle”, ci racconta l’attivista ucraina Diana Berg. “Pavel Gubarev (politico e militare originario di Severodonec’k, fondatore della milizia popolare del Donbas, ndr) si era autoproclamato capo dell’amministrazione regionale, poco dopo che un altro governatore era stato ufficialmente eletto. Fino ad allora avevo seguito gli eventi in maniera passiva, ma questa cosa mi aveva scioccata. Tutto ciò sembrava davvero assurdo e senza senso”. Di professione designer, prima dello scoppio del conflitto in Donbas Berg si interessava poco di politica.
Anche le proteste di Majdan, spiega, le aveva osservate da lontano, con una certa simpatia in particolare sulla scorta delle violenze poliziesche che si erano abbattute sui manifestanti, ma mai impegnandosi in prima persona. “L’arrivo di Gubarev mi ha spinto allora a unirmi al movimento e a organizzare delle manifestazioni a Donec’k a favore dell’Ucraina. Non c’era niente di strutturato, eravamo io e la mia cerchia di amici, perciò pensavamo che ne sarebbe uscito qualcosa di molto piccolo e simbolico. Invece, al corteo del 3 marzo sono venute migliaia di persone: era la dimostrazione che le nostre opinioni avevano un peso e che c’era una massa di persone che, al contrario di quello che pensavano gli organizzatori delle manifestazioni separatiste, non erano automaticamente filorusse. Abbiamo allora fondato un gruppo di iniziativa, composto da una decina di membri, e abbiamo rilanciato per il giorno successivo. Ma da lì sono iniziati anche gli attacchi nei nostri confronti”, racconta Berg.
Cortei e intimidazioni
Come abbiamo già accennato, il contesto temporale di cui si sta parlando è stato estremamente caotico: dopo l’inaspettata decisione dell’allora presidente Janukovyč di non firmare il trattato di partenariato con l’Unione Europea, i primi manifestanti scesi in piazza dell’Indipendenza a Kyiv nel novembre del 2013 hanno dato il via a un vero e proprio movimento di massa conosciuto come “Euromajdan”, che si è esteso in tutto il paese (ma soprattutto nella parte centro-occidentale) portando in seguito alla caduta del governo e a una serie di violenze e contro-violenze culminate nella sparatoria dei cecchini del febbraio dell’anno successivo; nel frattempo, però, andava generandosi anche un altro movimento di piazza, denominato anti-Majdan proprio perché si poneva in opposizione alle proteste iniziate nella capitale, e che esprimeva delle posizioni maggiormente filorusse o comunque di generico scetticismo nei confronti dell’Ue e dell’Occidente.
A volte si trattava di iniziative organizzate dal Partito delle Regioni a sostegno del presidente in carica, con anche partecipazione di cittadini russi, talvolta pagati per unirsi ai cortei, altre volte di proteste spontanee che sono andate crescendo in un clima di montante conflittualità che è culminata da una parte nello scoppio della guerra in Donbas e dall’altra nel famoso rogo della Casa dei Sindacati a Odessa il 2 maggio del 2014. In generale, i report dell’Ukrainian Protest and Coercion Data Project indicano nel periodo che va dall’autunno del 2013 al febbraio dell’anno successivo oltre 3mila eventi legati alle proteste di Majdan, e circa 400 invece di opposizione al Majdan.
“Prima di allora non mi ero posta neanche tante domande rispetto alla mia identità nazionale, o al mio rapporto con la Russia”, prosegue Diana Berg. “Gli eventi di Donec’k mi hanno portato però a sentirmi per la prima volta in tutto e per tutto ucraina. Eravamo arrabbiatissimi ma ancora credevamo nella non violenza e nel dialogo, in particolare con le persone locali che si erano schierate dalla parte dei separatisti: eravamo certi di potere trovare un terreno comune di discussione e in effetti, in qualche sparuta occasione, è avvenuto che si aprissero delle conversazioni e dei contatti non aggressivi. Ma, in generale, la mia impressione è che le reti che organizzavano le mobilitazioni filorusse avessero rigide gerarchie al proprio interno, per fare in modo che l’obiettivo rimanesse l’occupazione dei centri di potere della città”.
A un certo punto, per Berg come per altri che hanno provato a manifestare a favore dell’Ucraina nel Donbas, la situazione è diventata più tesa e difficile. Il 14 marzo un controcorteo filorusso ha attaccato i manifestanti pro-Majdan, provocando la morte di un membro del suo gruppo d’iniziativa. Sono iniziate anche ad arrivare minacce di morte dirette a lei. Così, ad aprile – dopo due mesi di lotta e di definitiva “trasformazione” in una figura politicamente attiva – assieme alla sua compagna di allora Berg ha lasciato Donec’k, ormai in mano ai separatisti, per trovare rifugio prima nell’ovest del paese poi a Mariupol’, da poco liberata dal battaglione Azov, dove nel 2016 grazie a finanziamenti internazionali ha aperto lo spazio di Platform Tu (un centro per la promozione dei diritti umani e per iniziative culturali, in cui si è esibito fra gli altri lo scrittore Serhij Žadan – citato in apertura di questa serie di articoli). Infine, un’ultima fuga a Kyiv, dopo l’inizio dell’invasione su larga scala nel febbraio 2022.
Tante vittime, un solo aggressore?
Una parabola che ricalca quella di molte altre persone che, sebbene non siano state così visibili a livello politico, comunque hanno espresso la propria opposizione alla Russia o alle forze separatiste durante le prime fasi del conflitto. “Siamo stati intimiditi e aggrediti fisicamente diverse volte, diciamo che era abbastanza chiaro che sarebbe andata così”, ci conferma Roman, originario di Lyman, che all’epoca oltre a studiare all’università lavorava come corrispondente per un piccolo giornale locale, fra i pochi a mantenere una linea filo-ucraina o comunque non così a favore dei separatisti.
“A livello personale io ero entusiasta del Majdan, ero anche andato in più di una occasione a Kyiv per partecipare alle proteste. Poi, quando sono iniziati i tentativi da parte dei separatisti di occupare i centri governativi a Donec’k, sono stato contattato da molti giornalisti, editori e corrispondenti che volevano coprire il caotico sviluppo degli eventi. Mi sono reso facilmente riconoscibile in fretta, forse anche un po’ ingenuamente. Quindi, il 17 aprile (2014, ndr) ecco che agenti dei servizi segreti separatisti sono venuti a cercarmi al dormitorio universitario in cui alloggiavo. Mi sono salvato per poco, nascondendomi in una sala due piani più in alto, ma intanto avevano preso il mio computer, soldi, documenti e macchina fotografica. Capii allora che era arrivato il momento di scappare via”, racconta Roman.
Così come il territorio del paese andava dividendosi in due, lungo quella “linea di contatto” - fra le zone controllate dai separatisti aiutati in segreto da Mosca e il resto che rimaneva sotto l’amministrazione del governo centrale di Kyiv - che si sarebbe più o meno cristallizzata attraverso il processo di Minsk, anche le strade personali di chi viveva in Donbas iniziavano piano piano a divergere.
“Quando ho lasciato i territori in cui ero nato e cresciuto, ho provato tantissima rabbia”, conclude Roman. “Mi è venuto da incolpare soprattutto molti miei concittadini, che non so bene per quali motivi abbiano deciso di schierarsi con la Russia e hanno così favorito lo scoppio della guerra. Poi ho capito, o almeno mi è venuto da pensare, che anche loro sono principalmente vittime dello stesso aggressore: come me, come gli altri ucraini. Semmai quelle zone dovessero un giorno tornare sotto il controllo di Kyiv, forse non ha senso neanche chiedersi chi pensa cosa, quali siano le inclinazioni politiche di ciascuno. Piuttosto bisognerebbe capire come garantire un buon tenore di vita per tutti, perché ho l’impressione che lì sia sempre più un inferno”.