Quindici tesi sull’attuale situazione internazionale

La guerra in Ucraina ha socchiuso un vaso di Pandora che molti pensavano sigillato per sempre: il mondo può essere travolto da una nuova guerra generale? Quali sono le dinamiche internazionali all’opera, le forze sociali all’origine di queste dinamiche e le prospettive che si delineano? Tentando di dare una risposta a questi angosciosi interrogativi cerco di contestualizzare la situazione attuale collocandola nella “lunga durata” storica. Gli elementi fondamentali alla base delle circostanze attuali delimitano possibilità, rischi e opportunità, ed evidenziano i limiti dei modi di pensare ereditati dal passato, e la necessità – nell’interesse delle classi lavoratrici – di una nuova politica.

  1. In un mondo in cui tutti gli Stati si reggono su un sistema capitalistico non può logicamente esistere un “ordine internazionale”. In un mondo di questo tipo i vari Stati sono posizionati su una scala gerarchica in funzione della produttività del lavoro globale delle rispettive società: questa scala gerarchica è mutevole nel tempo e non è predeterminabile. E’ nell’interesse delle varie borghesie nazionali acquisire un potere nello scacchiere mondiale almeno proporzionale alla propria posizione in questa scala gerarchica: come scriveva Lenin queste borghesie cercano di “eliminare la sproporzione tra lo sviluppo delle forze produttive e l’accumulazione di capitale da un lato, e dall’altro la ripartizione delle… ‘sfere’ d’influenza” – come è nell’interesse delle borghesie che vedono retrocedere la propria posizione sul mercato mondiale cercare di mantenere nella sfera della politica mondiale le posizioni precedentemente acquisite. L’impossibilità di un “ordine internazionale” puramente borghese ha la sua radice in un dato di fatto banale: mentre a livello di produzione e circolazione della ricchezza la società borghese, essendo sorta sulla base e grazie alla disgregazione della “produzione mercantile semplice” (società di produttori individuali, artigiani e contadini), è sottoposta alla legge del valore, che regola e permette il funzionamento dell’economia capitalista, a livello di politica mondiale non esiste alcun fattore intrinseco e costrittivo che garantisca un “ordine”, un “equilibrio” qualsiasi. Chi fa appello alle “trattative diplomatiche” per risolvere le crisi internazionali si immagina che il destino di questo mondo borghese sia retto dalla “buona volontà” di alcuni statisti, mentre si regge esclusivamente sugli interessi materiali delle varie classi e frazioni di classi dirigenti. Il mondo borghese è la prima società umana pienamente materialista, in cui contano solo i propri interessi e i rapporti di forza che si riescono a instaurare; una società che per la prima volta nella storia ha spazzato via tutte le pie illusioni dell’importanza dei “valori”, qualsiasi essi siano – i trent’anni di distruzione e morte, europei e mondiali, dal 1914 al 1945, ne sono la perfetta illustrazione.
  2. “Ordine internazionale” è sinonimo di non perseguimento dei propri interessi sostanziali da parte delle varie borghesie nazionali, che si assoggettano invece a un insieme di vincoli, opportunità e regole, più o meno condivisi o più o meno imposti dati i rapporti di forza internazionali, che congelano le loro rispettive posizioni nell’ “ordine internazionale” dato per un intero periodo storico. In tale situazione le azioni e le reazioni dei vari attori sono in una certa misura predeterminabili, in quanto possono operare entro un dato range di opzioni. Solo in un tale quadro le trattative diplomatiche sono un effettivo strumento di risoluzione dei conflitti. Le varie borghesie nazionali in questo caso si piegano a perseguire interessi di autopreservazione, che diventano prevalenti in quanto altre classi bloccano o deviano il perseguimento degli interessi sostanziali. Storicamente queste classi dirigenti non borghesi sono state quelle russe (e quella cinese per un certo lasso di tempo, ma con peculiarità che qui non affronto), in due configurazioni di potere completamente diverse e in due “ordini internazionali” completamente diversi, uno nel “lungo XIX secolo” (ca. 1770-1914) e uno nel “breve XX secolo” (1945-): in entrambi i casi questo fattore non-borghese era l’oggetto degli interessi condivisi di tutte le classi dominanti capitaliste, per proteggersi, per contenerlo, o per mantenerlo in vita, o tutte queste cose insieme. Inoltre, in modo puntuale, le varie borghesie nazionali hanno storicamente rinunciato ai loro interessi sostanziali per far fronte comune contro sollevazioni delle classi lavoratrici, a fronte della minaccia che una o più d’una di esse potesse essere estromessa dal potere. A parte queste ultime situazioni un “ordine internazionale” duraturo necessita quindi l’esistenza di un fattore non-borghese; questo stesso “ordine internazionale” può comunque sopravvivere a se stesso, ma solo per una lasso di tempo limitato, anche se questo fattore non-borghese viene a decadere nel corso del tempo (le vecchie regole vengono ereditate nella nuova situazione e vengono più o meno ancora seguite). Questo “ordine internazionale monco” in quest’ultimo caso è un “ordine” in progressivo disfacimento, disgregazione, soggetto a molteplici e ripetute rotture: le tendenze immanenti al mondo borghese si riaffermano nel corso del tempo portando infine in modo ineluttabile alla totale rottura dell’ “ordine internazionale” in questione. Il punto di rottura è predeterminabile solo in modo molto approssimativo, analizzando nel concreto i processi di disgregazione e di rottura. Storicamente le potenze più “pacifiste” (nel senso di mantenimento dello status quo, di mantenimento ab libitum dell’ “ordine” vigente) sono quelle che erano preminenti nell’ “ordine internazionale” in via di disgregazione: ieri la Gran Bretagna, oggi gli Stati uniti, salvo diventare le più belliciste se la propria posizione di preminenza venga seriamente minacciata.
  3. Se l’ “ordine internazionale” vigente è ancora quello del 1945, sopravvivendo come “ordine internazionale monco”, una nuova guerra generale è inevitabile a medio termine. Non è solo questione delle scelte politiche di questo o quel leader, o della probabilità o meno di specifiche crisi che emergono nel corso del tempo e di come vi rispondono i vari attori internazionali: l’avvio di una guerra generale può sicuramente essere decisa da uno specifico attore (come nel 1939 da parte della dirigenza nazista della Germania), ma può anche iniziare “da sola”, come un fatto “inevitabile”, con attori internazionali succubi dello svolgersi e del concatenarsi degli avvenimenti (come nel 1914, quando l’ “ordine internazionale” era talmente fragile da crollare solo grazie a delle pistolettate di un Gavrilo Princip). Solo la conquista del potere politico da parte delle classi lavoratrici dei principali paesi capitalisti eviterà questo esito altrimenti ineluttabile. Statisti borghesi (di destra e di sinistra), militanti pacifisti e dirigenti di estrema sinistra, tutti pensano che la pace sia l’esito di buone scelte politiche di chi è al potere, i primi facendo le proprie scelte, gli altri mobilitando i cittadini perché facciano pressione sui primi. Tutti condividono le stesse illusioni, e non vedono la tempesta che si avvicina. Non cogliendo i dati strutturali di fondo si precludono tutti la possibilità di fare “buone” scelte politiche; anziché agire sul corso degli avvenimenti tutti saranno agiti dal corso degli avvenimenti. “Buone” scelte politiche sarebbero quelle che almeno posticipassero il più possibile la nuova guerra generale – nell’interesse delle classi lavoratrici, mobilitazioni, propaganda, iniziative politiche che facessero temere un esito rivoluzionario e proletario a una guerra generale, obbligando per un certo lasso di tempo le borghesie nazionali a non perseguire i propri interessi sostanziali. Nella guerra che verrà gli schieramenti che si verranno a creare non sono predeterminabili. Le attuali alleanze non vogliono dire nulla, come dovrebbero ben sapere gli italiani memori del 1915 e del 1943, e come dovette ammettere un incredulo Stalin all’alba del 22 giugno 1941. La storia non è mossa dalle alleanze, neppure da quella odierna denominata Nato. Uno scontro tra Usa vs Cina-Russia è solo una delle possibilità, forse tra quelle più improbabili. L’ipotesi di una guerra russo-cinese a fronte di una disgregazione della Federazione russa, e con un posizionamento statunitense e un destino europeo imprevedibili, è molto più realistico. Tutto dipende dalla catena degli avvenimenti presenti e futuri.
  4. Il segreto del vecchio “ordine internazionale” del lungo XIX secolo fu una alleanza (a livello ufficiale questa alleanza non solo era negata, ma era propagandata l’irreconciliabile incompatibilità e ostilità tra i due paesi) tra la vecchia borghesia (la cosiddetta aristocrazia) dell’Inghilterra, il paese capitalista par excellence, e il potere zarista della Russia, la potenza “asiatica” più reazionaria. Il suo fine era impedire il sorgere e l’affermarsi della borghesia nell’Europa continentale – marginalizzando la Francia, impedendo la riunificazione della Germania e dell’Italia, ponendo sotto controllo e tutela zarista l’Europa centrale; e permettere alla vecchia borghesia inglese di rimanere al potere a fronte dell’ascesa della nuova borghesia industriale, pur con una base sociale via via più ristretta. Un “ordine internazionale” le cui basi vennero stravolte in modo più che radicale nel quarto di secolo successivo al 1848: rinuncia al potere esclusivo o al potere tout court delle borghesie tedesche e francesi; sviluppo capitalistico dell’Europa continentale; unificazione tedesca e italiana; “modernizzazione”, indebolimento e nascita di movimenti rivoluzionari in Russia; e infine nella stessa Inghilterra compromesso tra la vecchia e la nuova borghesia. Ma il vetusto “ordine internazionale” settecentesco resse ancora per quarant’anni. Come fu possibile? Nei primi vent’anni si sviluppò una complessa rete diplomatica elastica, contorta e contraddittoria, che non escludeva colpi di scena e momenti di rottura che tuttavia venivano faticosamente fatti rientrare, che convisse con enormi progressi nella tecnologia militare, con la generalizzazione della coscrizione obbligatoria, e con spinte aggressive ed espansioniste dello zarismo (che tuttavia nel 1878 dopo una clamorosa vittoria sull’Impero ottomano fece poi un più che sostanziale passo indietro piegandosi alla diplomazia internazionale a Berlino nell’estate dello stesso anno – l’aggressività zarista si fermò per alcuni anni dopo il 1891-1892, quando una terrificante epidemia di colera fece stragi in tutta la Russia). Nei vent’anni successivi, grazie anche a una sostanziale ripresa economica a livello mondiale dopo vent’anni di depressione, le tensioni riesplosero tra le varie grandi potenze, ma vennero “localizzate” nel mondo coloniale, mentre la Russia zarista conobbe un vigoroso processo di sviluppo capitalistico. In questo quarantennio le borghesie si piegarono alle regole del vecchio “ordine internazionale” sia per timore di sviluppi rivoluzionari in Europa occidentale e in Russia, sia per il complesso ruolo che veniva affidato alla Russia: paese che doveva essere “contenuto” evitando che si affacciasse sul mar Mediterraneo, ma al contempo doveva essere salvato dalle sue continue crisi finanziarie – a fronte dell’ascesa del movimento operaio in Europa occidentale la Russia zarista e i suoi eserciti venivano visti come l’ultima ancora di salvezza per tutte le borghesie. Tutta questa configurazione si reggeva sul fatto che i due debolissimi imperi che direttamente fronteggiavano la Russia (l’Impero asburgico e quello ottomano) non crollassero – per questo Marx li definì i due “pilastri marci” dell’ “ordine internazionale”. Così un “ordine internazionale” nato in funzione anti-borghese continentale prolungò la sua vita agonizzante a difesa della borghesia continentale.
  5. Il segreto del nuovo “ordine internazionale” del breve XX secolo fu una alleanza (a livello ufficiale questa alleanza non solo era negata, ma era propagandata l’irreconciliabile incompatibilità e ostilità tra i due paesi) tra la grande borghesia industriale statunitense e la burocrazia del Cremlino. Da parte statunitense l’interesse era nel decisivo ruolo controrivoluzionario dell’Urss nei paesi capitalisti più avanzati e in generale in Europa occidentale; da parte sovietica che gli Usa non avrebbero minato la stabilità dell’Urss nonostante ne avessero i mezzi (per es. dal 1963 fino a tutti gli anni ‘980 l’Urss sopravvisse solo grazie al grano statunitense). Che la propaganda e la repressione anticomunista di Washington non intaccassero minimamente questo accordo è ben spiegato dal precedente atteggiamento di Mosca nei confronti della repressione anticomunista da parte dei nazisti in Germania nel 1933, quando “c’era uno spirito di reciproca comprensione tra [i più alti diplomatici russi e le loro controparti tedesche] e, a tal fine, ci furono esplicite conferme che la distruzione violenta del KPD era perfettamente compatibile con relazioni di buon vicinato… Litvinov considerava ‘naturale’ che i comunisti in Germania fossero trattati ‘allo stesso modo in cui la Russia tratta i sovversivi’” (Bayerlein). Inoltre era nell’interesse di entrambi stabilizzare le relazioni neocoloniali e/o di sudditanza che sia Usa che Urss avevano con tutti i paesi più arretrati: l’ “appoggio” sovietico ad alcuni processi rivoluzionari nel mondo non intaccavano l’accordo di fondo in quanto furono sempre subordinati a realizzare, mantenere e rafforzare questo mondo di relazioni neocoloniali e/o di sudditanza – in ultima analisi l’ “appoggio” sovietico ad alcuni processi rivoluzionari (come in Vietnam) fu sempre fatto per distruggere quanto di genuinamente rivoluzionario vi era nei fatti o in modo potenziale in questi processi.
  6. A differenza del XIX secolo un quarto di secolo di grandi trasformazioni radicali non portarono alla scomparsa delle basi dell’ “ordine internazionale”, ma seguirono alla scomparsa di queste basi. Nel giro di pochissimi anni queste basi scomparirono: da un lato alla metà degli anni ‘980 la classe lavoratrice dei paesi capitalisti avanzati subì un “collasso strategico” che allontanava per un numero di decenni non predeterminabili ogni potenzialità rivoluzionaria; dall’altro lato la Unione sovietica implose, scomparendo del tutto come grande potenza. Il “collasso strategico” della classe lavoratrice è stato analogo a quello vissuto dalla classe lavoratrice inglese nel 1848, da quella tedesca nel 1933, e da quella statunitense negli anni dopo la seconda guerra mondiale – la classe lavoratrice occidentale ritroverà se stessa solo su nuove basi, nuovi programmi, nuove forme organizzative, non certo facendo rivivere i fallimenti e le illusioni passate che ne hanno determinato il “crollo strategico”; la burocrazia sovietica è semplicemente scomparsa dalla faccia della terra, riciclandosi in parte nei vari paesi successori in burocrati-borghesi più versati alla rapina e al saccheggio che alla produzione. Questo non impedisce che a distanza di decenni, “rivoluzionari” occidentali e burocrati-borghesi del Cremlino rimpiangendo i “bei vecchi tempi” (i primi intendono il XX secolo, i secondi il XIX secolo), sognano di potervi tornare con una “giusta politica”… Dalla metà degli anni ‘980 è seguito un quarto di secolo tumultuoso. I due più macroscopici fenomeni sono stati una nuova ondata di “decolonizzazione”, con l’autonomizzazione delle borghesie di un numero via via crescente di paesi prima ingabbiati da relazioni neocoloniali e/o di tutela (internazionali e interni) e l’emergere a grande potenza industriale della Cina, a fronte di un processo di deindustrializzazione statunitense e in parte europeo. Questo ha comportato la moltiplicazione nel corso del tempo della “multilateralità” dell’ “ordine internazionale” in quanto ogni borghesia dei paesi cerca un suo “posto al sole” e agisce di conseguenza. In questa situazione la borghesia statunitense ha cercato per tutti gli anni ‘990 non di porre un freno alla frammentazione dell’ “ordine internazionale” (un obiettivo al di fuori della sua portata), ma di impedirne la totale implosione, attraverso, da un lato, una serie di interventi finalizzati a localizzare e stabilizzare le situazioni di crisi, allargando le alleanze esistenti per diminuire il numero degli attori indipendenti sulla scena mondiale e nei vari settori regionali (“internalizzando” nelle alleanze esistenti le tensioni e le contraddizioni che sarebbero esplose in modo indipendente), e intrecciando legami contraddittori con i vari paesi e le varie potenze in modo da tenere in equilibrio un sistema via via più instabile (così ad es. con la Cina perseguendo una politica di “contenimento e integrazione”). Nel corso dei decenni questi legami contraddittori e acrobazie diplomatiche sono via via aumentati, raggiungendo negli ultimi anni livelli insuperabili – al confronto i processi che si svilupparono tra il 1875 e il 1895 (“l’era Bismarck”) appaiono oggi dei giochi da ragazzi. Negli anni 2000, inebriata da un decennio di inatteso boom economico, ha cercato di superare i limiti storici, ereditati dalla sconfitta in Vietnam, che limitavano il suo attivismo internazionale: di qui l’invasione dell’Iraq nel 2003, con il solo risultato di un patente fallimento fin dal 2005 e di un ulteriore peggioramento delle sue possibilità di azione a livello internazionale.
  7. L’ “ordine internazionale” della cosiddetta guerra fredda è sopravvissuto a se stesso? Quell’ordine internazionale serviva a evitare sviluppi rivoluzionari nei paesi capitalisti più avanzati, a far vivere l’Urss e a ingabbiare il “terzo mondo” in una rete di rapporti neocoloniali e/o di sudditanza. Tutto ciò è scomparso: scomparso il rischio di sviluppi rivoluzionari in Occidente, scomparsa l’Urss, scomparsi la maggior parte dei rapporti neocoloniali e/o di tutela. Ma come ha scritto un commentatore negli anni ‘990 gli Usa sono rimasti “marooned in the Cold War”: la borghesia statunitense continua a pensare e ad agire come se il vecchio mondo non fosse scomparso. Si intestardisce, con le borghesie delle potenze europee, a ribadire la validità dei vecchi vincoli, opportunità e regole, semplicemente perché in questo “ordine” si trova bene, riesce a ben prosperare, e senza i vecchi vincoli, opportunità e regole il futuro appare incognito, e soprattutto denso di rischi e pericoli inauditi. E ha ragione. Se fino a ieri un numero significativo di borghesie nazionali si è astenuta dal perseguire in modo consistente i propri interessi sostanziali è solo per il timore che si tratti di una scommessa in cui esiste la possibilità di perdere tutto. Ma questi vincoli, opportunità e regole nel corso del tempo si disgregano, vengono sfidati, sempre più nuove borghesie nazionali rifiutano vincoli che appaiono desueti, cercano nuove opportunità, cercano di riscrivere nuove regole. Il caos inerente, insito in un mondo esclusivamente borghese riemerge costantemente, esplode in modo puntuale, crea tensioni e crisi, fino a quando alla fine riuscirà a spezzare ogni tipo di vincoli, opportunità e regole.
  8. Fissiamo lo sguardo sull’anno 2010: depressione economica mondiale; fine dello sviluppo impetuoso della Cina in termini reali (in termini di produttività totale dei fattori); totale dipendenza degli Usa di un imponente afflusso di capitali dall’estero; fallimento dei progetti di reindustrializzazione russi; impotenza militare statunitense evidenziata dall’insensata avventura irachena, in assenza di coscrizione obbligatoria e di un solido “fronte interno”. E in più, dall’anno successivo: la “primavera araba”, che si prolunga negli anni successivi in una serie di mobilitazioni di massa contro le classi dirigenti in tutto il mondo. Tutte le potenze si rivelano nella loro vera natura – potenze del tutto fittizie, con il pericolo per le varie borghesie che le “primavere” dei popoli possano essere il primo passo attraverso il quale le varie classi lavoratrici possano ritrovare se stesse, nonostante la repressione inaudita subita. Per ironia della storia i due campioni della “guerra fredda” sono quelli messi peggio, sono i veri “pilastri marci” dell’ “ordine mondiale”: gli Usa, che vivono solo grazie ai capitali esteri e non si possono permettere nessuna guerra seria; la Federazione russa (che si autoconsidera più che il vero erede dell’Urss il risorto erede del vecchio Impero zarista), che senza reindustrializzazione si trova nella situazione di un qualsiasi paese del vecchio “terzo mondo” (anche se lo sviluppo della produzione agricola dopo 60 anni di catastrofi è rivelatore di una profonda rivoluzione sociale nelle campagne – l’unica voce positiva nella Russia post-1991), e che rimane una prigione dei popoli pronta a esplodere non appena il fragile equilibrio interno si spezzi (l’ascesa di Putin al potere venne salutata a occidente con sollievo, visto che portò stabilità a una Russia in preda al caos eltsiniano, tanto da farlo diventare l’enfant chéri dell’occidente, a cui si perdonavano ogni tipo di “scappatelle” [sic], dalla Georgia, alla Siria, all’Ucraina, alla retorica ipernazionalista e antioccidentale). In una situazione del genere ci si sarebbe potuti aspettare una sorta di “congelamento” della situazione della politica mondiale, un ripiegarsi delle varie borghesie nazionali esclusivamente sugli interessi prudenziali. E invece no.
  9. Gli anni 2010 vedono il consolidarsi o l’emergere di tre leader rappresentativi di quegli anni: Putin, Xi Jinping e Trump. Iper-reazionari, nazionalisti, alfieri dell’irrazionalismo e dell’autoritarismo xenofobo, scommettitori nati; totalmente fallimentari nelle loro politiche, e per questo ancor più di prima iper-reazionari, nazionalisti, alfieri dell’irrazionalismo e dell’autoritarismo xenofobo, scommettitori. Di fronte ai maggiori rischi che riserva la politica mondiale, anziché prudenza la risposta generale è la fuga in avanti – e a questi tre nomi se ne potrebbero aggiungere molti altri. Perché? Nel caso di Trump la sua base borghese è stata descritta come quella dei lumpencapitalisti (“lumpenmiliardari”), alla periferia dei tradizionali centri del potere economico, composta, oltre a dinastie di famiglie petrolifere come quella Kochs, da “robber barons” postindustriali che si arricchiscono con immobili, private equity, casinò, eserciti privati, usura. Nel caso di Boris Johnson la sua base borghese sarebbe un settore minoritario del capitale finanziario, in primo luogo hedge funds, con poche connessioni con l’economia inglese. Nel caso di Putin e Xi Jinping la larga sovrapposizione di big business e apparato statale relega le fratture interne alle classi dirigenti in spazi opachi poco analizzabili con certezza. Ma rimane che – minoritaria o maggioritaria che sia a seconda dei paesi – una parte delle borghesie nazionali delle maggiori potenze (probabilmente i settori più legati ad ambiti specifici del capitale finanziario e speculativo) ha optato di sfidare in qualche misura vincoli, opportunità e regole esistenti in nome dei propri interessi sostanziali – vista la situazione di depressione mondiale (e non di boom economico come dal 1895) questa scelta appare più come frutto della disperazione che di un calcolo razionale. Ma che un comportamento del genere venga fatto da una borghesia di un paese marginale a livello mondiale è una cosa, che venga fatto da un paese di piccola o media importanza ma dotato di armamento nucleare è un’altra, e che venga invece fatto dalle più grandi potenze militari del mondo un’altra ancora. Una innovazione a livello discorsivo e di strategia politica non da poco, che evoca “lo spirito di violenza e di volgarità” che caratterizzò la svolta “imperialista” dal 1895.
  10. Il Cremlino nel febbraio 2022 intendeva annettersi buona parte dell’Ucraina, direttamente o indirettamente, insediando un governo fantoccio – le dinamiche delle prime due settimane di guerra lo hanno evidenziato con chiarezza. Intendeva sicuramente rompere le regole esistenti – ma in modo che lo strappo potesse essere riassorbito, come fecero Bismarck e Cavour quando unificarono Germania e Italia, come fece Hitler, con l’Anschluss e l’occupazione dei Sudeti e poi di Praga. Si sa che il calcolo del Cremlino fu del tutto erroneo – Putin non è la riedizione odierna, neanche in sedicesimo, di Bismarck, Cavour o Hitler. Il dramma è che il Cremlino, dopo essersi reso conto del totale fallimento della sua operazione, sia dal punto di vista politico che militare, ha puntato tutto sulla escalation militare del conflitto, per ottenere costi quel che costi l’obiettivo prefissato (anche se ridotto dopo poco più di tre settimane di guerra alla conquista del Donbass e di tutto il meridione ucraino), in quanto un passo indietro avrebbe messo in discussione la leadership di Putin e della sua corte. Il momento decisivo è stata la prima settimana di marzo, in cui, pur di salvare se stesso, Putin ha optato per il va banque, aprendo un baratro internazionale dalle conseguenze imprevedibili. Il problema, nella logica dell’ “ordine internazionale” esistente, non è il fatto dell’invasione (dell’aggressione, dell’espansionismo) in sé: altre se ne sono fatte con il pieno accordo internazionale, e altre ancora se ne sono fatte in modo unilaterale senza mettere però in discussione l’ “ordine” esistente. Credere che il problema sia quello del “rispetto delle sovranità nazionali” è un’ingenuità imperdonabile, come se il mondo attuale si reggesse su questo o su altri “valori”. Se l’operazione di Putin si fosse conclusa in una settimana o poco più, con la divisione dell’Ucraina in due Stati, uno Stato filorusso a oriente, con Kiev inclusa, e uno Stato cuscinetto indipendente a occidente, le tensioni internazionali avrebbero raggiunto lo zenit, ma sarebbero state riassorbite nei mesi seguenti da trattative, dure ma proficue, con la monetizzazione dello sgarro del Cremlino da parte delle potenze occidentali. D’altronde una delle “travi marce” su cui si regge l’ “ordine internazionale” è proprio la Federazione russa, e non è nell’interesse di nessuno farla crollare. Sicuramente Putin ha tenuto in debito conto questo fattore quando ha soppesato i pro e i contro nella programmazione iniziale della guerra.
  11. Una delle regole e dei vincoli dei vari attori in Europa secondo l’attuale “ordine” era che non vi fosse una significativa frontiera comune tra l’Europa occidentale (sia come UE, sia come Nato) e la Federazione russa. L’UE è un caotico insieme di frazioni borghesi nazionali le più diversificate, in un quadro che continua a evolvere in modo imprevedibile, e la Federazione russa è uno “Stato fallito”: mettere in diretta comunicazione questi due mondi sarebbe stato creare una miscela esplosiva. Lo Stato cuscinetto ucraino era una necessità per gli equilibri regionali europei. Putin era disposto a seguire questa regola con la divisione dell’Ucraina: ma a far saltare tutti i piani russi e tutti i contropiani occidentali è stata la resistenza ucraina. In fondo al loro cuore anche tutti i dirigenti occidentali odiano gli ucraini e Zelensky (un nome con cui si intende in realtà non la persona, ma la resistenza ucraina): di fronte a una guerra di simili proporzioni (e di atrocità innominabili e generalizzate) non potevano di fronte alle loro opinioni pubbliche non fare buon viso a cattivo gioco. Ma non si è trattato solo di opinioni pubbliche: quando era chiaro il fallimento del piano di Putin e la sua ostinazione a perseguirlo, l’Ucraina pur se occupata sarebbe stata un eccezionale fattore di instabilità permanente in Europa, sia in termini politici, sia in termini militari. Una Ucraina occupata grazie a un “guardare altrove” dell’Occidente avrebbe obbligato la resistenza ucraina a prendere un corso indipendente, diventando un simbolo europeo e mondiale di resistenza popolare e di un altro ordine sociale (un po’ come i feniani irlandesi nell’Inghilterra della seconda metà dell’ ‘800). Soppesando i pro e i contro le potenze occidentali hanno deciso, dopo molte oscillazioni, di sostenere la resistenza ucraina.
  12. Ma sostenere la resistenza ucraina per porla sotto propria tutela non è una scelta semplice e lineare. I fattori in gioco sono tremendamente troppi. Se vince l’Ucraina cosa succederà dopo? Una Ucraina nell’UE fa comunque saltare i precedenti equilibri europei. È probabile che dopo una vittoria gli ucraini vogliano “rifondare” il loro paese e non tornare alla situazione pre-esistente: tanti morti e tante sofferenze solo per tornare nello schifo di prima? Un protagonismo popolare di tal fatta sarebbe quanto meno sgradito… Se la Russia perde si profilerebbe un suo crollo, e questo le potenze occidentale non possono tollerarlo: come aiutare la Russia armando l’Ucraina? In altri termini, il vero problema che si pone è come salvare la Russia da Putin. Problema quasi insolubile! In Russia non esiste una classe borghese autonoma dal potere statale, indipendente e autoconscia come negli Usa: il 23 novembre 2020 amministratori delegati e rappresentanti di banche e società finanziarie internazionali (tra cui General Motors, Mastercard e Goldman Sachs) scrissero e fecero pubblicare una lettera chiedendo a Trump di iniziare immediatamente il processo di transizione all’amministrazione Biden – un avvertimento e un addio a Trump, che lo stesso giorno annunciò che avrebbe avviato il processo di transizione, prima di quel giorno sempre rifiutato in modo ostinato. E se vince la Russia pur nella opzione ridotta (Donbass e Ucraina meridionale)? Le potenze occidentali si sono spinte troppo in avanti per accettare quella divisione che avrebbero accettato obtorto collo a fine febbraio. Lo scenario è troppo cambiato. E soprattutto anche se la Russia (dopo le perdite incalcolabili di questa guerra) pur se vincente se ne starebbe nei fatti bella tranquilla per un bel po’ di tempo, accettare una divisione dell’Ucraina insegnerebbe a livello internazionale che una politica di va banque come quella adottata da Putin dai primi di marzo è vincente. Pericoloso precedente… (gli scenari che si aprirebbero in tutta l’Asia orientale sarebbero da brividi, nonostante le obiettive debolezze militari cinesi e la relativa pochezza nordcoreana al di fuori dell’armamento nucleare). E se invece la guerra si trascinasse per mesi e mesi? Anche qui lo scenario è pericolosissimo: le eccezionali sanzioni adottate contro la Russia a medio termine farebbero crollare l’economia russa, altro obiettivo da evitare a tutti i costi – ma come fare a ritirare la sanzioni con una guerra che non finisce più? E infine lo scenario da incubo, per cui la direzione del Cremlino dopo l’escalation decisa ai primi di marzo, per disperazione optasse per un’ulteriore escalation, ricorrendo ad armi nucleari (tattiche, dimostrative, o quant’altro).
  13. Tutti gli scenari delle prospettive di questa guerra sono spaventosi. Quello più soft è che Mosca accetti di rientrare nei confini del 23 febbraio, ma anche in questo caso rimangono numerose incognite. In termini generali e grezzi le altre alternative sono: escalation nucleare, escalation militare con un diretto intervento Usa o Nato, crollo dello Stato russo sulle cui spoglie tutti si getterebbero (in primis la Cina). Nell’ottica di allontanare il più possibile nel tempo una guerra generale, il che è sinonimo di mantenimento dell’attuale “ordine internazionale” per quanto rivoltante possa essere, la speranza è che la resistenza ucraina possa vincere, che si sviluppi un protagonismo popolare ucraino che impedisca di tornare alla situazione pre-esistente, e che lo Stato russo non crolli – ovviamente senza Putin e la sua cricca visto quello che hanno dimostrato di saper fare, ma indipendentemente da questa considerazione, la cosa fondamentale è che non si disgreghi.
  14. In questa situazione altre tendenze pericolose sono all’opera. Gli appelli per una corsa al riarmo in Europa sono astrattamente comprensibili, ma del tutto erronei e pericolosi. L’UE non ha mai avuto una politica estera e militare comune, e soprattutto il gap militare che la distanzia dalle grandi potenze è troppo grande per essere annullato in pochi anni. Anche una corsa agli armamenti in Europa non cambierebbe sostanzialmente il quadro militare complessivo. Ma la cosa decisiva è un’altra: come ha insegnato l’Ucraina i due fattori decisivi in guerra sono: coscrizione obbligatoria e motivazione delle truppe. Poi ovviamente vengono disponibilità delle armi e capacità strategica e tattica del comando. L’Europa senza coscrizione obbligatoria è per definizione senza difese – illudersi che qualche gioiellino tecnologico possa risolvere tutto è un’idiozia che anche Putin ha dovuto, suo malgrado, imparare. Per chi ha come prospettiva storica futura un altro ordine sociale in cui la classe lavoratrice in quanto classe abbia il potere (non dico “di sinistra” perché è un termine senza più alcun senso), è urgente riprendere a studiare (immagino più o meno da zero) tutti i problemi e le questioni militari, come tra fine ‘800 e inizi ‘900 fecero Engels (“Può l’Europa disarmare?”, 1893), Bebel (“Nicht stehendes Herr sondern Volkswehr”, 1898) e Jaurès (“L’Armée nouvelle”, 1911). Un lavoro ingrato e lungo anni, ma che sarebbe di enorme aiuto alla causa della classe lavoratrice.
  15. Quanto precede (a parte alcune notazioni en passant) è frutto della volontà di analizzare la situazione attuale dal punto di vista dell’ “ordine internazionale”, perché le classi lavoratrici del mondo hanno un obiettivo interesse a mantenerlo rinviando il più possibile una guerra generale, pur criticandolo aspramente in tutti i suoi aspetti rivoltanti. Questo non esaurisce il tema dei vari motivi per cui il sostegno attivo alla resistenza armata ucraina è l’unica posizione degna che i lavoratori/lavoratrici in quanto classe possano prendere. Su questo ci sono ottimi testi in circolazione. E non ho affrontato il tema Ucraina-UE, se non per gli aspetti problematici negli equilibri europei. Aggiungo solo una piccola considerazione relativamente alle sanzioni internazionali alla Russia. In questa situazione assolutamente gravida di pericoli inimmaginabili ritengo siano giuste tutte le sanzioni, anche quelle che si configurano come una vera e propria “guerra economica”: il va banque di Putin dai primi di marzo è talmente pericoloso che tutto (ovviamente eccetto un intervento diretto Usa e/o Nato) è benvenuto se può contribuire a un ritiro russo, anche sanzioni che peggiorino le condizioni di vita della popolazione russa e delle popolazioni europee. Negli anni ‘930 i trotskisti italiani (a differenza del Pc stalinizzato) rifiutarono di approvare le sanzioni internazionali contro l’Italia che stava conducendo la guerra in Etiopia, in quanto questo favoriva la propaganda di Mussolini per cui la questione non era una guerra dell’Italia che voleva annettersi l’Etiopia, ma di un conflitto internazionale in cui era l’Inghilterra (la “perfida Albione”) ad attaccare l’Italia. Contrari alle sanzioni degli Stati i trotskisti italiani erano per sanzioni operaie, per cui erano i sindacati e i partiti operai che dovevano realizzare delle sanzioni di fatto su tutte le transazioni commerciali. Anche se alcuni aspetti possono rassomigliare all’attuale situazione la differenza fondamentale è che non esistono più organizzazioni operaie internazionali che possano essere un sostituto alle sanzioni statali. Non c’è l’alternativa sanzioni statali vs sanzioni operaie, ma sanzioni statali vs nessuna sanzione. In tantissimi oggi dicono che certe sanzioni comporterebbero conseguenze enormi per l’Europa: questo è assolutamente innegabile, e dire “che paghino i padroni!” è dire una sciocchezza che dimostra solo la totale ignoranza della situazione reale da parte di chi lo dice. Ma a fronte di molte citazioni di Marx ed Engels a mio avviso fatte in modo improprio (per il diverso contesto storico) penso che a questo proposito ve ne sia una che invece possa essere rivelatrice. La guerra civile negli Stati uniti ebbe conseguenze terribili sull’industria tessile inglese, dove vi furono licenziamenti di massa. Il governo inglese per questioni di interesse (“non possiamo fare senza il cotone americano”) (ma anche di interessi politici inconfessati) appoggiava i sudisti, cioè gli schiavisti. Anche “a sinistra” qualcuno appoggiava gli schiavisti, facendo appello alla miseria degli operai tessili senza il cotone americano e al fatto che in America i veri grandi capitalisti erano quelli del nord; qualcuno appoggiava cioè gli schiavisti con una retorica molto “anticapitalista” (“anche gli operai sono degli schiavi dei padroni!”). Marx ed Engels si schierarono in modo del tutto incondizionato con il nord, fecero adottare alla I Internazionale un messaggio di pieno sostegno al Presidente Lincoln (redatto da Marx), definirono il principale agitatore “di sinistra” pro-sudisti “a rat of man” e si rifiutarono sempre di avere minimamente a che fare con lui, ed elogiarono come eroi gli operai tessili che nonostante la terribile situazione in cui vivevano esprimevano tutto il loro pieno sostegno alla causa del nord, e per la totale sconfitta militare dei sudisti schiavisti.