Il punto di vista femminista sulla guerra ucraina. Intervista a Irina Zherebkina

La guerra in Ucraina, oltre alle terribili distruzioni, ha portato alla scoperta – a chi è disposto a vedere e ad ascoltare – di persone, donne, comunità che si mobilitano, producono riflessioni, si auto-organizzano e ci interpellano. I social media – per una volta – creano relazioni e conoscenza mentre gli strumenti informatici consentono traduzioni quasi perfette in tempo reale, offrendo a chi lo desidera la possibilità di incontrarsi e dialogare anche se solo virtualmente.

È nella ricerca del punto di vista degli ucraini sotto le bombe e dei russi contrari alla guerra che mi sono imbattuta nella filosofa ucraina Irina Zherebkina. Irina dirige il Kharkiv Center for Gender Studies (KhCGS),  fondato con altre donne nel 1994 per tradurre,  diffondere e discutere la teoria femminista occidentale nelle regioni post-sovietiche.

Zherebkina ha un profilo Facebook in cui alterna un diario personale e familiare in tempo di guerra a dense riflessioni filosofiche per interrogare e dialogare con un’ampia gamma di intellettuali come Étienne Balibar, Alain Badiou, Slavoj Žižek, Judith Butler, ma anche con interlocutori ucraini e russi – ahimè meno noti in Italia o del tutto sconosciuti – come Artemy Magun, Ossana Timofeeva o un’antesignana della teoria femminista come Žharana Papič…

Elisabetta Michielin: Il servizio di traduzione di Facebook dall’ucraino all’italiano traduce i tuoi post “personali” in modo un po’ arruffato il che, tuttavia, non impedisce di cogliere tutta la loro leggerezza e umorismo, che sono poi i tratti caratteristici della tua scrittura di filosofa che non storce il naso di fronte alla quotidianità. Anzi, mi sembra che se ne nutra. I tedeschi hanno questi due termini, Erlebnis ed Ereignis, che significano rispettivamente esperienza ed evento. In giorni come questi, cioè di missili che piovono sulla testa e di distruzione, capisco perché una certa fenomenologia ne abbia fatto un’endiadi. Penso quindi all’avventura delle suole delle scarpe da tennis di tuo marito incollate con la colla da cancelleria. Sono rimasta positivamente sorpresa da quest’arte di arrangiarsi sotto le bombe. Un modo per dire che quelle scarpe risistemate al meglio sono una forma di resistenza alla guerra, di non voler essere determinati da essa, di non voler essere preda, nella propria legittima indignazione, della rabbia e dell’odio? Leggevo questo piccolo evento familiare e mi è venuto in mente il vecchio Epicuro, quel suo invito a ridere e allo stesso tempo a filosofare e ad amministrare la casa.

Irina Zherebkina: Grazie per la tua reazione alle mie note frammentarie e casuali, Elisabetta, e per la tua solidarietà. In effetti, il mio stile di scrittura sui social network è cambiato poco dall’inizio della guerra in Ucraina. Sono cambiati il contesto socio-culturale e l’ottica dei miei lettori, che ora percepiscono la mia personale esperienza quotidiana come esperienza di una situazione esistenziale, che è la guerra. Inoltre, come ha mostrato Sartre nelle sue opere teatrali, una delle caratteristiche della situazione esistenziale è che persone che si trovano in uno stato di comunanza possono viverla in modi completamente diversi, come ad esempio, un prigioniero condannato a morte e un medico che è venuto a visitarlo nella cella alla vigilia dell’esecuzione. La domanda principale che mi pongo è di come passare dalle esperienze in una situazione esistenziale a una modalità di azione che possa dare speranza di porre fine alla guerra non solo a me e alla mia famiglia, ma anche ai miei lettori.

EMContinui a dialogare con Judith Butler e con la sua visione non violenta a favore di una politica globale che sostenga i principi di un’uguaglianza radicale in cui tutte le vite abbiano lo stesso valore. Come si tutela la non violenza in una situazione di guerra di resistenza?

IZ: La maggior parte delle moderne teorie della guerra, in un modo o nell’altro, implicano (o non contestano) il postulato di Karl Clausewitz secondo cui il vincitore in guerra è colui che usa la violenza in modo più deciso ed efficace per raggiungere i propri obiettivi politici, e si può resistere con successo all’avversario solo usando una violenza di maggiore intensità.

La teorica femminista Judith Butler sfida il postulato militarista dell’onnipotenza e dell’irresistibilità delle forze della violenza. Nella sua critica femminista della violenza, sostiene che le forze della non violenza possono essere più efficaci ed efficienti nel raggiungere l’obiettivo politico di porre fine alla guerra rispetto alle forze della violenza. Naturalmente, afferma Butler, nella situazione della guerra di Putin contro l’Ucraina, la comunità femminista internazionale dovrebbe sostenere incondizionatamente l’autodifesa ucraina e sperare che in queste condizioni terribili e crudeli, l’indipendenza ucraina possa essere difesa. Ma l’accettazione incondizionata della logica della violenza come logica dello sviluppo storico è, secondo Butler, un vicolo cieco per la civiltà umana, poiché la forza trainante di ogni guerra è la freudiana pulsione di morte, il cui obiettivo è la distruzione dei legami sociali, che il maschilismo militarista persegue.

In alternativa alla mobilitazione militarista di massa fornita dall’ideologia del fascismo, che oggi è la risorsa dell’invasione da parte di Putin in Ucraina, Butler propone una mobilitazione femminista antimilitarista basata sui valori femministi dell’interdipendenza e della cura (in opposizione alla idee di individualismo, su cui si basa l’ideologia militarista maschilista). Butler osserva (seguendo Chantal Mouffe) che la mobilitazione femminista ha bisogno di un potente immaginario politico in grado di contrastare le fantasie fasciste di destra che oggi minacciano la democrazia e la pace. “Ecco perché, – dice Butler, – la sinistra ha bisogno di un immaginario molto forte, perché loro hanno un forte desiderio di ristabilire l’ordine e noi abbiamo bisogno di un immaginario molto potente”.[1] Allo stesso tempo, Butler ritiene che la solidarietà femminista e la comprensione reciproca possano resistere efficacemente all’individualismo militarista maschilista solo se vengono attuate come transnazionali, fornendo le catene di equivalenze più ampie possibili, e non nazionalistiche esclusive, di cui ha parlato nel suo discorso alla conferenza “Solidarietà femminista transnazionale con le femministe ucraine”, che abbiamo tenuto insieme a lei e Sabine Hark il 9 maggio 2022.

Le femministe che ritengono che, se la violenza rimane inamovibile in una società patriarcale, le donne debbano anche imparare a usarla e a non rifiutarla, sono fondamentalmente in disaccordo con questa posizione della Butler. Le idee della Butler sulle forze della non violenza e dell’immaginazione sono, secondo queste femministe, fantasie che distraggono le femministe ucraine e le loro associate dalla lotta decoloniale per l’indipendenza contro il regime di Putin. Secondo una delle partecipanti alla conferenza del 9 maggio 2022, Tereza Hendl: «Per me, l’insistenza di Butler nell’aggrapparsi all’irrealistico in risposta alla violenza imperiale è destrutturata, irresponsabile e dannosa. Per quanto ben intenzionata, l’attenzione all’utopia nasconde l’impatto materiale della violenza della Russia, la minaccia reale e imminente alla vita degli Ucraini e non risponde alle richieste degli Ucraini di sostenere la difesa del loro Paese contro l’ attacco letale della Russia».[2]

Pertanto, in condizioni di guerra, secondo le critiche femministe nazionaliste di Butler, è necessario puntare non sul transnazionalismo, ma sul nazionalismo, che è la principale forza di mobilitazione della resistenza ucraina di oggi.

A mio avviso, al contrario, le femministe ucraine oggi non dovrebbero immergersi in un’unica strategia politica, quella della russofobia.

Sono certa che le femministe ucraine non dovrebbero rifiutare la collaborazione e la solidarietà con i dissidenti russi, bielorussi e di altri regimi nei paesi dell’ex URSS. Inoltre, credo che non debbano sostenere una cultura di abolizione totale di  tutte le forme e i tipi di cultura russa come “imperialista”. Il fatto è che nella cultura russa, oltre a quella “maggiore” (in termini di Deleuze),  si può individuare anche una cultura “minore” che resiste agli ideali di qualsiasi tipo di imperialismo (si veda la mia nota “Does Ukraine Need Russian Culture to  Win the War Against Russia”, L’Ucraina ha bisogno della cultura russa  per vincere la guerra contro la Russia? su e-flux).

EMA un Étienne Balibar un po’ perplesso che si interroga oggi sul rapporto guerra-nazionalismo e che scrive che “non dobbiamo cercare di rispondere alla domanda su cosa sia il nazionalismo ucraino, ma piuttosto cosa diventi durante questa guerra”, nel tuo post su faebook sembri fargli eco. Chiedo quindi: cosa è diventato o può diventare il nazionalismo ucraino ai tuoi occhi?

IZ: Quindi, in questa guerra, la posta in gioco è, come scrive Balibar del nazionalismo ucraino in divenire come un nazionalismo a venire, in sintonia con la democrazia a venire di Derrida: “non dobbiamo cercare di dare una risposta a una domanda del tipo: «che cos’è il nazionalismo ucraino?», ma piuttosto:che cosa sta diventando nel corso di questa guerra?”.  Vi vedo una manifestazione della sua sincera simpatia per la resistenza del popolo ucraino all’aggressione russa e del suo desiderio di credere che il nazionalismo in Ucraina possa essere trasformato, modificato in internazionalismo, proclamando la fine dell’era dell’io cartesiano come sostanza pensante unica (che serve come strumento di presa della legge patriarcale) e stimolando l’invenzione di nuove pratiche sociali di uguaglianza e comunanza. Seguendo la logica di Balibar, è l’internazionalismo che potrebbe aiutare il femminismo nazionalista ucraino a sbarazzarsi di caratteristiche ripugnanti del nazionalismo come la xenofobia, l’incitamento all’odio nei confronti delle donne, delle minoranze etniche in Ucraina, ecc. (qui la logica del filosofo francese Étienne Balibar coincide con la logica della filosofa femminista Donna Haraway, ma non solo: la sua scommessa sull’internazionalismo è in sintonia anche con la logica di Yulia Kristeva  nel suo libro Nazioni senza nazionalismo).

A mio avviso, una simile strategia politica femminista potrebbe aiutare a riportare l’etica nella politica (che l’Ucraina sta ora attuando durante la giusta guerra per l’indipendenza e personalmente dal presidente Volodymyr Zelensky, che ha compiuto un gesto etico radicale rifiutandosi di lasciare Kiev all’inizio della guerra su invito dei governi occidentali). Del resto, anche il consigliere presidenziale Oleksiy Arestovich, che si oppone al nazionalismo etnico, ha oggi milioni di iscritti e di visualizzazioni sui social network, numero che supera notevolmente quello degli iscritti delle nazionaliste ucraine cisgender Oksana Zabuzhko e/o Irina Farion.

EMTi rivolgo la stessa domanda che hai posto ai tuoi lettori su Facebook: “Cosa dovrebbero fare gli intellettuali e le femministe in tempo di guerra”, in particolare in relazione all'”alzarsi in piedi e resistere” di tutti gli strati della popolazione?

IZ: Anche i miei studenti di filosofia e di studi culturali mi pongono spesso questa domanda: “cosa dovrebbero fare gli intellettuali in una situazione di guerra?” e mi chiedono se le femministe siano in grado di offrire un’alternativa che possa resistere alle forze della violenza in tempo di guerra e fermare la guerra.

Cosa posso dire loro ora che i missili e le bombe russe stanno distruggendo il mio paese e la mia città? Rispondo con una parola: solidarietà. E cito Butler dalla sua lettera alla vigilia della nostra conferenza “Solidarietà femminista transnazionale con le femministe ucraine”: «La cosa più importante è che le femministe ucraine siano sostenute e che la comunità femminista si unisca a sostegno delle nostre colleghe. È vero che alcune hanno una posizione generale contro la guerra; altre sostengono una guerra giusta o una resistenza giustificabile; alcune sono preoccupate che l’attacco ai “valori occidentali” includa un attacco al genere e al femminismo in senso più ampio. Ma soprattutto, dobbiamo riunirci per opporci alla violenza di Putin, indipendentemente dalle nostre opinioni sulla NATO e simili. Non è il momento di risolvere tutte queste questioni, ma di stabilire una chiara solidarietà!»

EM: Non hai voluto firmare l’appello per il diritto alla resistenza delle femministe ucraine contro la guerra e nemmeno l’appello internazionale delle femministe. Puoi spiegarci perché?

IZ: Penso che entrambi questi manifesti – internazionale (Feminist Resistance Against War. March 17, 2022) e nazionale ucraino (“The right to resist” A feminist manifesto 07/07/2022 The Feminist Initiative Group) sono in realtá identici nelle loro richieste e la differenza tra loro è solo tattica (diverso atteggiamento nei confronti della NATO), non strategica, concettuale. Io firmerei un manifesto femminista che formulasse strategie filosofiche e teoriche sulla possibilità di fermare la guerra, e non solo richieste tattiche particolari.

EMIn Italia la guerra è iniziata con un’università che ha vietato un corso su Dostoevskij. C’è stata un’indignazione trasversale, forse l’ultima cosa che ha tenuto unita la famiglia di sinistra in questa guerra. Che la grande letteratura russa non possa essere toccata in Occidente è un fatto indiscutibile. Lo sa bene anche il consigliere di Zelenski, Aleksey Arestovich, che nel suo canale telegram dice apertamente: “Odio Dostoevskij ma …”. D’altra parte ci giungono notizie di biblioteche ucraine ripulite da autori russi e, come tu stessa ricordi, molti intellettuali ucraini hanno posizioni più radicali, riferendosi ad esempio al movimento Black Lives Matter e alla distruzione delle statue coloniali. Nel tuo articolo pubblicato su e-flux hai una terza posizione. Puoi spiegarci di cosa si tratta e quali autori consigli a noi italiani?

IZ: Il contraccolpo contro tutto ciò che è russo che ha travolto il mondo dopo l’invasione dell’Ucraina da parte di Putin è prevedibile e inevitabile. Ma in Italia e in altri Paesi europei, la cultura e la letteratura russa, ovviamente, non saranno completamente cancellate. In Ucraina, questa cancellazione avverrà e sta già avvenendo. Credo che questa sia una sorta di collaborazione con il regime criminale di Putin, e non con la cultura russa dissidente e ‘minore’. Dopo tutto, Putin è in realtà totalmente ostile alla cultura russa con i suoi elementi di non violenza (ricordiamo la teoria della non violenza di Tolstoj, che ha influenzato il Mahatma Gandhi e la filosofa femminista Leela Gandhi) – così come a qualsiasi cultura in generale.

Che cosa sia la cultura minore russa è difficile da spiegare a un lettore che conosce la letteratura russa solo dai romanzi di Tolstoj e Dostoevskij. Per questo motivo, i redattori del mio articolo “L’Ucraina ha bisogno della cultura russa per vincere la guerra contro la Russia?” su e-flux, mi hanno chiesto di spiegare al lettore occidentale non solo cosa rende speciale Andrei Platonov o Daniil Kharms nella letteratura russa, ma anche perché Pushkin, poco conosciuto in Occidente, appartiene alla grande/maggiore cultura russa.

Tuttavia per la filosofa serba Adriana Zaharijević e la poetessa Dubravka Djuric, che conoscono bene il contesto culturale russo, il concetto di “letteratura russa minore” è sembrato assolutamente ovvio e non necessita di spiegazioni 🙂 . Adriana Zaharijević , che ha fatto la traduzione di questa mia nota in serbo (Ruska književnost i rat u Ukrajini), ha interpretato il mio testo come un intervento femminista sul putinismo: “Mi mostra come le femministe continuino a mettere in discussione, a condividere, a ridicolizzare, a ridere e a piangere del loro coraggio e della loro paura. Trovo il tuo testo una luce, che usa il linguaggio della filosofia per vivere in qualche modo l’orrore presente e per immaginare quello che verrà. Alternativo, diverso”.

Anche se, naturalmente, il confine che divide la cultura russa – come qualsiasi altra – in maggiore e minore è molto mobile, mutevole e, come mi ha ricordato la filosofa russa Helen Petrovsky (usando Pushkin come esempio), nelle opere di autori che apparentemente appartengono alla “grande” cultura russa, possiamo scoprire i fenomeni di una cultura “minore”. Questo è sufficiente a cambiare la solita prospettiva.

E per gli italiani che si interessano alla cultura russa, posso consigliare, come esempi di cultura russa minore, non la letteratura russa, a cui la cultura russa è solitamente associata, ma la filosofia russa moderna, quasi sconosciuta, come hai notato, a un vasto lettori in Occidente – alle opere di Helene Petrovsky, Oleg Aronson, Michail Ryklin, Artemy Magyn, Oxana Timofeeva, Alexei Penzin, Maria Chekhonadskih, Ilya Budraitskis e, soprattutto, Valery Podoroga, il maestro di molti filosofi post-sovietici contemporanei, il cui libro “Mimesis: The Analytic Anthropology of Literature” è stato recentemente pubblicato da Verso.

EM: La strada della “letteratura minore” può indicarci anche un percorso per comprendere questa guerra? Lasciando da parte l’oggettività della geopolitica fatta in nome del realismo e del relativismo postmoderno e delle post-verità, assumendo invece il rischio del posizionamento e della prospettiva parziale alla ricerca di quei punti di vista che, come dice Donna Harayay, “non possono mai essere conosciuti in anticipo”?

IZ: In realtà, il mio appello alla cultura russa minore come risorsa antimilitarista è solo una delle possibili opzioni, una delle mosse proposte nella ricerca di risorse culturali per resistere al militarismo. Più in generale, la domanda oggi si pone così: la cultura moderna può offrire qualche strumento, qualche tipo di arma in grado di resistere al militarismo, di fermare le forze della guerra in Ucraina e nel mondo?

Di norma, dal campo dei difensori dell’indipendenza nazionale ucraina, sentiamo chiedere all’Occidente di darci solo armi e nient’altro: “Faremo il resto da soli, e non abbiamo bisogno di nulla da voi tranne le armi”. Per quanto riguarda la cultura e la filosofia occidentali, l’Ucraina non ne è ancora interessata. Gli intellettuali ucraini (scrittori e filosofi) insistono sul fatto che la nostra cultura e la nostra filosofia, esaltando la nostra dignità nazionale e i nostri sentimenti di vendetta e di rabbia, senza l’aiuto di altre culture, siano in grado di fornire da soli la vittoria sul nostro nemico nazionale.

Ma davvero l’Ucraina non ha bisogno di altro dall’Occidente se non di armi, possiamo fermare l’aggressione di Putin solo con la forza delle armi occidentali?

Credo che solo le forze delle armi occidentali senza le forze della cultura – non solo europea, ma anche globale- non siano sufficienti a sconfiggere il regime imperiale, militarista e patriarcale di Putin, che può essere distrutto solo da 1) forze congiunte/solidali – militari ed economiche – dell’internazionalismo mondiale e 2) l’intervento contro il regime di Putin dall’interno da parte degli oppositori russi. In questo contesto, i cittadini del mio Paese devono capire che gli oppositori russi del regime politico autoritario e militarista di Putin e della guerra che sta conducendo soffrono di questa guerra e delle repressioni di Putin all’interno della Federazione Russa non meno di noi ucraini.

In questo contesto, sto pensando alle possibilità sovversive non solo della letteratura russa, ma anche della filosofia e dell’arte russa, capaci, a mio avviso, di sferrare un colpo devastante al regime di Putin dall’interno.

Dopo tutto, è emerso che anche un breve cartone animato (ad esempio “Masyanya” di Oleg Kuvaev. Episodio 162. St. Mariuburg) è in grado di sferrare un colpo tangibile all’ideologia del militarismo di Putin (per questo i sostenitori del putinismo hanno cercato di rimuoverlo da Youtube): da un lato, sovverte l’identità dell’abitante russo medio, costringendolo a identificarsi con la popolazione ucraina. Dall’altro, mina la costruzione ideologica di un popolo russo unito, dimostrando chiaramente che non tutta la popolazione russa è composta da “rashists” [neologismo ucraino: crasi fra russi e fascisti] che sostengono Putin e la sua “operazione speciale” e, francamente, la guerra contro l’Ucraina.

EMNei tuoi studi sei stata molto critica nei confronti del femminismo post-sovietico, con i suoi aspetti liberali, e in particolare del femminismo ucraino che hai definito nazionalista. Questi due tipi di femminismo sono paragonabili al femminismo liberale occidentale? E il tuo, come lo qualificheresti? Hai attinto elementi dall’archetipo del “nuovo uomo sovietico” o pensi che non ci sia nulla in quella tradizione che possa avere, oggi, valore di liberazione universale?

IZ: Innanzitutto cercherò di rispondere alla tua seconda domanda. Sebbene sia la mia famiglia che quella di mio marito abbiano sofferto molto per le repressioni staliniane, considero la soggettività politica sovietica non un “archetipo” junghiano invariabile, ma un insieme eterogeneo di soggetti in processo (secondo i termini di Julia Kristeva), che comprende sia momenti di antagonismo che di solidarietà.

Il femminismo liberale occidentale può essere confrontato con il femminismo post-sovietico in base al criterio che i programmi femminili (centri di genere) emersi nei Paesi dell’ex URSS negli anni ’90, spinti dal desiderio del capitalismo, seguivano la logica basata sul concetto di différance di Derrida, quando nel tradizionale dilemma di uguaglianza e differenza, l’enfasi è posta sulla differenza (comprensione della soggettività politica delle donne finalmente come “atomica”, in relazione competitiva con gli altri). Non è un caso che quando, dopo il crollo dell’URSS, i centri di genere post-sovietici si sono organizzati all’interno del discorso del liberalismo (da qualche parte prima, da qualche parte dopo), era difficile parlare di solidarietà: dopo tutto, ci siamo rivelati produttori di un nuovo tipo di merce capitalista – la merce femminista all’interno del discorso sugli studi di genere. E questo significa che negli anni ’90 eravamo necessariamente inserite in un rapporto di competizione nascosta, ma spietata, quando la questione dell’uguaglianza era associata esclusivamente al marxismo di tipo sovietico, senza riferimenti al primo marxismo de I manoscritti economici e filosofici del 1844, incentrato sul compito di superare l’alienazione capitalistica dell’uomo da parte dell’uomo esaltando la sua capacità creativa. Per me personalmente, è stata questa componente della teoria marxista a rivestire un’importanza decisiva già all’epoca in cui frequentavo la scuola.

Per quanto riguarda il femminismo nazionalista ucraino contemporaneo, vedo la sua debolezza – così come la debolezza del femminismo liberale post-sovietico in generale – nel suo orientamento verso i valori capitalistici e nella sua disponibilità a rispettare l’ordine statale delle autorità ucraine dal 1991, senza criticarlo. Di conseguenza, il femminismo nazionalista ucraino ha funzionato per tutti questi anni non come un movimento critico antisistemico, ma piuttosto come un discorso e un movimento sistemico, di fatto non lanciando alcuna sfida al potere patriarcale ma piuttosto legittimandolo attraverso la esaltazione acritica dei valori democratici. Invece di criticare il potere patriarcale maschile, il femminismo nazionalista è ossessionato, a mio avviso, solo dal desiderio di “entrare al potere”, in altre parole, non si è assunto il compito politico di criticare il potere patriarcale dall’interno, ma ha preferito ritagliarsi un posto in questo regime di potere, svolgendo – sottolineo ancora – la funzione di legittimare l’attuale ordine politico patriarcale.