Si va verso la manifestazione per la pace del 5 novembre

Personalmente, non provo tutta questa grande spinta alla partecipazione perché, da una parte, mi sembra un richiamo in prevalenza rituale e ‘interno’ allo scenario italiano (in cui comunque c’è e ci sarà da far fronte a grossi e numerosi problemi di ordine sociale che in quanto tali vanno giustamente nominati e per i quali va organizzata una risposta politica) e, dall’altra, vede la partecipazione di aree, sigle e gruppi con cui questa guerra ha creato una distanza che reputo ormai incolmabile.

Al di là delle idiosincrasie, però, mi pare giusto che si parli di negoziati e trovo positivo che un movimento che esprima un desiderio di pace si formi e che, magari, a partire da questo si articolino proposte e iniziative sensate. Certo, un buon punto di partenza sarebbe intanto riconoscere come mai si sono date le condizioni affinché si possa ora parlare, intravvedere forse (?) la possibilità di pace e di dialogo e la questione, a mio modo di vedere, ha una risposta pressoché univoca: la volontà del popolo e dell’esercito ucraino di resistere all’invasione, con un discreto grado di successo (qualcuno dei comunicati esprime solidarietà per la resistenza, en passant). Non lo dico per polemica o per tentazioni di eroizzazione delle gesta belliche, ma perché è un dato di fatto e uno dei primi obiettivi di un pensiero di pace dovrebbe essere quello di capire come ‘trattare’ i dati di fatto (cioè, come rielaborarli attraverso strumenti non-violenti, con quali certificazioni e risarcimenti materiali e simbolici). Altro dato di fatto che sarebbe bene non far passare in cavalleria: mentre noi discutiamo di pace, Putin (che è IL responsabile numero uno di questa guerra), bombarda grazie a droni di provenienza iraniana indiscriminatamente il territorio ucraino, anche le città lontane centinaia di chilometri dal fronte, e dichiara la legge marziale nelle repubbliche di Donetsk e Luhansk e nei territori occupati, facendo di ucraini e russi niente più che carne da macello per i suoi deliri da criminale.

Questo per dire, se veramente vogliamo far nascere un movimento per la pace, che sarebbe bene interrogarsi seriamente sulle questioni in campo, senza cedere al pensiero magico, e provando a mettere in campo strumenti di pacificazione un po’ più alti di quello di un generico appello all’Onu. Insisto, senza polemica, ma perché mi pare che ci sia nel dibattito generale una mancanza grave, un vuoto, da parte di chi in scorse crisi e conflitti se ne è occupato anche ‘dal vivo’ e in tutta la complessità che questo campo richiede. Spunti, aperti, di discussione:

  • la questione della “giustizia”. Capisco che ogni pace che non segua una disfatta militare totale debba essere frutto di un compromesso (in cui ogni parte “cede” qualcosa), ma non si può escludere la variabile della giustizia da ogni ipotetico accordo di pace. A meno che non si tratti di un mero e strategico cessate il fuoco, ma almeno se ne abbia consapevolezza (leggi: la consapevolezza che gli spari ricominceranno da lì a poco). Ora, credo che un senso di giustizia debba prevedere – come minimo – la cessione da parte della Russia di tutte le zone occupate durante la corrente invasione e il ritiro entro i confini pre-24 febbraio. Davvero come minimo minimo, una roba che ti attacchi con le unghie e coi denti e che cerchi di strapparla fino alla fine, sennò sai che ogni qualsiasi soluzione alternativa (benché temporanea) non potrà che essere percepita se non come farsa. Giustizia vorrebbe anche che Putin fosse consegnato a un tribunale internazionale, ma (nella consapevolezza che ciò chiaramente non potrebbe essere una condizione realistica da mettere sul piatto dei negoziati) che almeno acconsentisse a far giudicare alti quadri dell’esercito per quanto è successo a Bucha, Irpin, Mariupol, ecc. ecc. Da parte ucraina, può essere probabilmente lecito chiedere un’amnistia che riguardi le persone che hanno collaborato con le forze di occupazione durante questi mesi a gradi bassi e che fanno parte della popolazione civile così come la garanzia di un giusto processo (con supervisione internazionale) di chi invece si è implicato a livelli più alti. In più: riconoscimento istituzionale a livello europeo del valore della resistenza ucraina (cosa che sta già avvenendo), ingresso nell’Ue, cancellazione del debito, impegno europeo nella ricostruzione del paese;
  • la questione della “sicurezza”. Le letture riduzioniste (non da ultimo quella delirante, dal punto di vista storico, di Cacciari e altri post-fascisti) per cui questo conflitto sarebbe originato dalla guerra nel Donbass e da tensioni inter-etniche o inter-linguistiche o (? boh) inter-identitarie è sbagliata. Punto. A Putin non gliene frega una beneamata mazza del Donbass o della sicurezza dei russofoni (già questo è controsenso, visto che i russofoni sono presenti e parecchio accettati su tutto il territorio nazionale, a partire dal presidente del paese stesso) o dei russofili presenti in Ucraina, non si è neanche mai degnato di farci un giro in Donbass. Il suo è un disegno di neo-imperialismo regionale, con tratti politici neoconservatori e post-fascisti: questo, a sinistra, va riconosciuto e trattato come tale senza ambiguità. La politica dell’“appeasement” (per cui basterebbe risolvere la questione del Donbass o delle minoranze linguistiche oppure ancora garantire un facile accesso anche alla Russia delle risorse del territorio ucraino oppure ancora una piena gestione delle basi russe in Crimea) è la politica che l’Europa (e in una certa misura anche gli Usa, sì) hanno perseguito in questi anni e non funziona, anzi siamo di fronte al suo plateale fallimento. Pertanto, e purtroppo, anche la questione della sicurezza va posta senza ambiguità e va posta innanzitutto nell’interesse del popolo ucraino e secondariamente delle spazio europeo: è bello blaterare di un’architettura comune che coinvolga anche la Russia ma, seriamente, è possibile tutto ciò con la Russia di Putin? Credo che siamo di fronte a ben poche e amare alternative (con buona pace di chi vede nella neutralità dell’Ucraina una qualsivoglia risoluzione), che si riassumono in: ingresso rapido dell’Ucraina nella Nato, oppure in una zona demilitarizzata sotto supervisione di contingenti Onu fra confini fra Russia e Ucraina oppure ancora in un impegno di difesa congiunta del paese ucraino da parte degli Usa e di alcuni paesi europei (come un pochino ipotizzava Draghi qualche tempo fa). C’è altro? Da parte Usa, come minimo, va chiesto il ripristino del proprio impegno nel trattato sui missili nucleari a medio raggio, una apertura a rivedere delle misure concordate di disimpegno militare in Europa con la Russia (come già comunque fu espresso durante una sessione Onu di poco precedente all’invasione) e ad aprire tavoli di trattative che coinvolgano anche la Cina di Xi;
  • molto correlata alle questioni di cui sopra, il problema della “memoria” e del reintegro in territorio ucraino di regioni che, per più o meno tempo, sono state “contese”, per così dire. Anche qui, sarebbe bello (ancorché illusorio) pretendere dalla Russia un impegno a riconoscere e far giudicare da organismi terzi il ruolo che militari sotto copertura, mercenari e altri gruppi hanno avuto nel fomentare il separatismo. Dall’altra, mi pare lecito insistere nel chiedere al governo ucraino che si faccia chiarezza e ci si impegni nel portare avanti le indagini (magari con commissioni parlamentari) su episodi che ancora rimangono poco chiari e attendono di essere cauterizzati nella memoria collettiva: la sparatoria dei cecchini durante la rivolta di Euromaidan, la strage di Odessa del maggio del 2014, i crimini di guerra di battaglione Azov e Aidar durante il conflitto del Donbass, l’influenza di forze di ideologia neo-nazista (o che utilizzano una chiara simbologia di ascendenza neo-nazista) nella vita politica del paese. In più: pieno riconoscimento delle minoranze linguistiche ed etniche, da quella Rom ai tatari, introduzione di legge a sostegno dei diritti femminili e Lgbt e adozione di un nuovo codice del lavoro concertato con le forze sindacali indipendenti, anche in virtù del ruolo che tutte queste soggettività stanno svolgendo e hanno svolto nella resistenza contro l’invasione. Soprattutto in questo senso, ripeto, mi sembra ci sia un vuoto di pensiero nel mondo pacifista e di sinistra: quali strumenti di sostegno e aiuto mettere in campo? Commissioni di verità e giustizia? Collaborazione con le associazioni e le realtà già attive sul territorio (vedi Sotsialnyi Rukh e Eastern Human Rights Group, per esempio)?

Questi solo alcuni, infinitesimali, dei nodi spinosi. Restano aperte mille altri punti, dal come coniugare la possibile accettazione dei disertori russi con le esigenze della comunità ucraina residente in Europa alla questione di una sempre più urgente riforma dell’Onu (e, devo dire, di una sua capacità deterrente più pronunciata che contempli l’uso della forza), per esempio: cose che a me piacerebbe vedere dibattute in un’ottica concreta, realistica, progressista a sinistra. E su cui si pone anche la questione di una maggiore autonomia europea ‘dentro’ e ‘contro’ la Nato (o in alternativa ‘fuori’, ma con quale programma?), un’Europa che però deve avere e avrà la “esperienza ucraina” come suo fattore ri-fondante: ma, davvero, con quali strumenti? La costruzione di un esercito di difesa comune europeo (quindi accettando il riarmo)? La costruzione, però seria (il che implica l’introduzione di una qualche forma di mobilitazione obbligatoria) di un esercito europeo di pace, come suggeriva Langer? La moltiplicazione (ma stavolta davvero massiccia, quindi con fondi da sottrarre a…?) di attività di cooperazione decentrata, supervisione internazionale di processi democratici, interposizione con contingenti militari nei conflitti aperti (e dunque con rinnovata ingerenza negli affari di altri stati)? Davvero, domande sincere di chi si sente di sinistra, pacifista e antimilitarista ma, allo stesso tempo, vorrebbe fare altrettanto sinceramente i conti con la realtà che abbiamo di fronte.